Riproponiamo un testo che Roberta Baroni, attualmente coordinatrice de L’Arca, aveva scritto per il convegno dei 25 anni d’attività de La casetta; questo testo non parla solo alle mamme ma a tutte le donne. Molte di loro si possono ritrovare nella bambina del racconto, che vuole essere grande e brava e fare tutto da sola. Leggendo la storia di questa “piccola donna” ci ricordiamo che tutti abbiamo bisogno di relazioni che ci facciano sentire sostenuti e protetti.
Non si può fare tutto da soli.
Ho deciso di intitolare il mio intervento prendendo in prestito il titolo di un famoso libro di Louise Alcott che ha accompagnato la mia fanciullezza. Il romanzo narra la vita di quattro sorelle che crescono con grande senso di responsabilità, sacrificio e solidarietà reciproca. All’epoca esso aveva molte estimatrici e naturalmente tutte s’identificavano con le protagoniste brave, buone e un po’ sfortunate. Mi sentivo una piccola donna anch’io.
La storia di Francesca
L’argomento è lo spunto per introdurre la storia di Francesca, una storia che simboleggia e racchiude quella di molte altre bambine: sempre più spesso nella nostra struttura incontriamo bambine che, come suggerisce il titolo esprimono comportamenti adulti.
Nei confronti dei pari esse sono normative, danno le regole, ricordano i limiti o manifestano atteggiamenti consolatori e di accadimento. Nei momenti di gioco, come in quelli di routine, tendono a mantenere un controllo generale piuttosto elevato, intervenendo negli scambi e nelle dispute tra bambini o indicando con solerzia all’educatore questo o quel naso da soffiare, perdendo così il piacere e il beneficio della partecipazione diretta. Cercano spesso di mettersi al posto dell’adulto nella gestione del gruppo e nella conduzione delle attività.
Quello che superficialmente può sembrare un comportamento “responsabile” da “bambine grandi” è indicatore in realtà, di una serie di fatiche e adeguamenti che esse devono continuamente mettere in atto per compiacere l’adulto ed essere gratificate.
Già nel corso del primo anno di frequenza, Francesca manifestava sempre più i suoi comportamenti adulti nei confronti degli altri bambini e la tendenza a mettersi al posto di in relazione con l’educatore. Faticava ad accettare i limiti e le sue reazioni ai “no” consistevano spesso in manifestazioni di pianto e rabbia come se quei no fossero la fine di tutto e la fine della relazione affettiva con me. Non aveva relazioni privilegiate con i pari e per tutte le caratteristiche summenzionate e aveva una certa difficoltà a entrare nei piccoli sottogruppi di bambini, che di volta in volta si formavano.
Iniziai a lavorare sui limiti e mi resi conto che i no che la bambina faticava ad accettare erano proprio quelli riguardanti il suo intervento in situazioni riguardanti altri bambini. Le mie frasi “non occorre che tu dica a questo bimbo cosa deve o non deve fare”, “le regole le diamo noi grandi”, “”se questo bambino ha bisogno di essere consolato, ce ne occupiamo noi adulti”, “sei una bambina come lui” la ferivano molto. La frustrazione che dimostrava quando veniva fermata era enorme: piangeva, si buttava per terra e rimaneva arrabbiata per un bel po’.
Il percorso di ”avvicinamento” fu lungo e ci volle parecchio tempo prima che accettasse di essere contenuta in occasioni del genere.
Parlai con il corpo oltre che con la voce: mentre verbalmente le comunicavo che anche se le dicevo di no le volevo bene lo stesso ed ero disposta ad accoglierla, aprivo la mia postura (ero spesso seduta per terra) e tendevo la mano in segno di disponibilità. Ci vollero parecchi mesi prima che quella mano venisse afferrata e che l’adulto normativo e quello affettivo venissero integrati.
Contemporaneamente lavorai sul riconoscimento della dipendenza e sull’aspetto insito nella dipendenza, contrapposto alla frustrazione che si prova a dipendere da qualcuno. Anche in questo caso il corpo è sempre un buon alleato: ballavamo, saltavamo, ci abbracciavamo, ci lasciavamo andare, rotolavamo a terra, incontravamo gli altri.
Recuperammo e rivivemmo alcuni aspetti di quando era stata piccola ma non troppo perché non era più una neonata. Proprio per questo motivo le permettevo, per contro, di collaborare con me e la invitavo ad accompagnarmi quando andavo a prendere o riporre del materiale usato per attività. Ritenni in questo modo di rispondere alla propensione di Francesca a svolgere mansioni adulte gratificandola in questo senso, ma attraverso la rotazione farle comprendere con i pari, che era allo stesso livello degli altri bambini affinché non fosse sempre lei ad assumersi un ruolo che non le competeva.
Nel corso dei mesi emerse anche una parte morbida fino a quel momento celata. Venne all’asilo con una borsetta che la rappresentava e che conteneva due sacchetti di nylon per fare la spesa (l’aspetto pratico ed efficiente), ma anche un paio di pupetti morbidi un anello e un pettinino.
Salutai la famiglia che ci si accingeva a proseguire il percorso di socializzazione alla scuola materna; alla fine dell’anno ci ritrovammo come al solito per i colloqui individuali.
La mamma accolse le mie proposte di riflessione sui comportamenti di Francesca, fece qualche domanda a me e a se stessa. Mostrò un aspetto apparentemente più debole ma che io definisco morbido come quello della figlia e la invitai a sostenere e preservare come un piccolo tesoro questo nuovo lato di Francesca che era poi anche il suo…e anche il mio.
Già anche il mio, perché è sempre sorprendente, anche se ovvio, il modo in cui le relazioni evolvano nel corso del tempo e come la triangolazione educatore-genitore-bambino attivi un susseguirsi di azioni e reazioni: soprattutto mi hanno fatto riconciliare in quella brava bambina che sono stata.
Durante l’ultimo colloquio con la mamma di Francesca parlammo di donne forti, della fatica che facciamo a sostenere questo ruolo, della fatica che chiediamo alle nostre figlie di fare a loro volta. Ci commuovemmo e ci riconoscemmo in un abbraccio.